domenica 21 dicembre 2008

Medicina: 11 mln italiani con reflusso gastroesofageo, costi alle stelle

E' un vero e proprio esercito quello degli italiani con malattia da reflusso gastroesofageo (Mrge). I connazionali con bruciore alla bocca dello stomaco, rigurgito ed esofagite sono 11 milioni, "dunque la malattia ha una prevalenza di ben il 18% nel nostro Paese", rileva Marcello Tonini, docente di scienze forensi e farmacotossicologiche all'università di pavia . L'occasione è la presentazione, oggi a Roma, di uno studio internazionale che ha indagato i costi della malattia in sei Paesi: Italia, Francia, germania , Gran bretagna , Spagna e Svezia. E che ha visto lavorare insieme medici ed economisti. Lo studio ha analizzato l'impatto della Mrge sulla qualità della vita di chi ne soffre, ma anche gli aspetti economici della malattia. Sia i costi diretti che quelli indiretti relativi alle giornate di lavoro perse o alla scarsa produttività, proprio a causa della malattia. La Mrge, infatti, 'brucia' in media 5,7 ore alla settimana, tanto quanto il mal di testa e più di artrosi (4,8 ore), allergie (4,1) e ipertensione (3,3). Ma ad andare in fumo sono anche gli euro necessari a curarla, sia bene che male. In base alle analisi dell'economista dell'università di Barcellona (Spagna) Josep Darba, "ogni paziente costa in media 242 euro per i farmaci, 74 per le eventuali ospedalizzazioni e 26 per il tempo dedicato dai medici alle visite. Il che significa che l'Italia spende ogni anno 3 miliardi e 443 milioni di euro di costi medici diretti". Come se non bastasse, l'assenteismo sul posto di lavoro aggiunge un miliardo al conto. E il presenteismo, indicato come la presenza alla scrivania ma non al 100% delle proprie possibilità, ne aggiunge altri 4 miliardi e 400 milioni. Insomma, cifre da capogiro a cui vanno aggiunte le risorse spese male per via delle terapie non adeguate alle necessità del paziente, che si risolvono in farmaci sbagliati, ricoveri ospedalieri e peggioramento delle condizioni che possono sfociare in patologie più serie e costose tra cui l'esofago di Barret o l'adenocarcinoma dell'esofago. Da qui la necessità, sottolinea Tonini, "di una corretta diagnosi e soprattutto della giusta cura per le esigenze del malato. I farmaci oggi a disposizione, gli inibitori della pompa protonica (Ipp) che riducono l'acidità dello stomaco, sono cinque. Ma gli effetti migliori si ottengono con i due di ultima generazione: l'esomeprazolo e il pantoprazolo. E' chiaro - aggiunge - che dovranno essere queste due molecole la scelta d'elezione per i pazienti più complicati o con le forme meno facili da trattare. Anche se costano di più". Il farmacologo rivolge a questo proposito una severa critica alle Regioni che hanno introdotto delibere restrittive che, inserendo il prezzo di riferimento, di fatto limitano l'accesso di questi farmaci a tutti i malati per i quali sarebbero indicati. "Nelle Regioni senza il prezzo di riferimento - continua Tonini - esomeprazolo e pantoprazolo assorbono il 24% del mercato degli Ipp, mentre nelle altre (Lazio, Sicilia, Puglia, sardegna , Liguria, Abruzzo, Molise e Calabria) la percentuale è solo all'11%. Le delibere - conclude - sono state criticate anche dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), che ha ammesso l'esistenza di differenze sostanziali, e di un problema da affrontare". (Adnkronos Salute)

venerdì 14 novembre 2008

Medicina: fibromialgia in rosa, male incompreso per 2 mln italiani

A prima vista sembrano persone sane, ma in realtà soffrono a 360 gradi: dolori diffusi e senza tregua, uniti a stanchezza, colon irritabile, alterata sensibilità a più parti del corpo, perdita di memoria, difficoltà di concentrazione e addirittura ansia o depressione in un caso su 4. Sono i malati incompresi di fibromialgia, una patologia cronica che colpisce 2 milioni di italiani, donne 9 volte su 10. Pazienti che rischiano lunghe odissee da un medico all'altro, e che prima di essere riconosciuti sono spesso costretti a convivere con l'impietosa l'etichetta di 'malati immaginari'. Perché per diagnosticare la fibromialgia non esistono per ora esami specifici. A puntare i riflettori su questa condizione tuttora misteriosa, forse causata da un 'tilt' dei circuiti neurologici che abbatte la soglia di sopportazione al dolore, è un opuscolo informativo dedicato da Onda (Osservatorio nazionale sulla salute della donna) a tutte le italiane. Presentato oggi a Milano in Comune, il vademecum può essere anche scaricato online cliccando all'indirizzo www.ondaosservatorio.it. "Sebbene possa assomigliare a una malattia articolare - spiega Piercarlo Sarzi Puttini, direttore dell'Unità complessa di Reumatologia dell'ospedale Sacco del capoluogo lombardo - la fibromialgia non è artrite e non causa deformità articolari. È una forma di reumatismo extra-articolare o dei tessuti molli. Per questo manca di alterazioni di laboratorio e gli esami non possono identificarla. La diagnosi dipende dai sintomi che il paziente riferisce, e questo può portare a considerarli 'immaginari' o non importanti. Naturalmente non è così". E per gestire la gravità dei sintomi che avvertono, questi malati hanno spesso bisogno anche di un supporto psicologico. O meglio di un "approccio 'biopsicosociale' - afferma Riccardo Torta, professore aggregato di Psicologia clinica e direttore della Struttura complessa di Psicologia clinica e oncologica dell'azienda San Giovanni Battista Le Molinette-università di Torino - che deve tenere conto della componente fisica, emozionale e relazionale" per ogni paziente. "Da vari anni - ricorda la presidente di Onda, Francesca Merzagora - nel mondo scientifico sta assumendo crescente evidenza l'osservazione che molte delle malattie che comportano dolori cronici, tendono ad avere una maggiore incidenza nel sesso femminile. Tra queste ha una particolare rilevanza la fibromialgia, che costituisce quindi un impegno prioritario per il nostro Osservatorio". Negli ultimi 10 anni, evidenzia una nota, la fibromialgia è stata meglio definita attraverso studi che hanno stabilito le linee guida per la diagnosi. "Sebbene l'esame obiettivo (visita) sia solitamente nella norma e le persone possano apparire sane - sottolinea Sarzi Puttini - un attento esame dei loro muscoli rivela la presenza di aree dolenti in sedi specifiche". Non tutti i medici conoscono la fibromialgia, aggiunge l'esperto, ma "la maggior parte dei reumatologi sa come eseguire la valutazione dei 'tender points' per arrivare a una diagnosi". Eppure spesso i malati di fibromialgia "si sottopongono a molti test, e vengono visitati da molti specialisti mentre sono alla ricerca di una risposta sulla causa della loro malattia - dice Merzagora - Questo porta a paura e frustrazione, che può aumentare la percezione del dolore". Di questi pazienti "viene spesso detto che, poiché obiettivamente non hanno nulla e gli esami risultano nella norma, non hanno una reale malattia. I familiari, gli amici e il medico di famiglia possono quindi dubitare dell'esistenza di tali disturbi, aumentando l'isolamento, i sensi di colpa e la rabbia nei pazienti" che per il dolore a volte non riescono neppure a lavorare o a coltivare i rapporti sociali. Da qui il ruolo cruciale dell'informazione, ai pazienti e agli operatori sanitari. Parola di esperti, questi malati richiedono più attenzione e un approccio multidisciplinare che coinvolga il terapista della riabilitazione e occupazionale, il reumatologo o lo psicologo. Una strategia che deve prevedere un doppio intervento. "La frequente sovrapposizione di ansia, depressione e stress cronico nelle sintomatologie dolorose, compresa la fibromialgia - continua Torta - spiega il motivo dell'impiego di psicoterapie e antidepressivi: le prime per agire sulle componenti cognitive, comportamentali e relazionali investite dalla sofferenza, i secondi non solo per agire sul tono dell'umore, ma soprattutto per intervenire sulla componente dolorosa - puntualizza lo specialista - verso la quale questi farmaci esercitano una diretta azione di contenimento", precisa. Ma anche i gruppi di supporto, le pubblicazioni e i siti Internet rappresentano importanti 'alleati' per molti di questi pazienti. Perché spesso sapere che non si è soli può essere già di per sé un aiuto prezioso. Molti malati di fibromialgia migliorano e sono in grado di convivere con la propria condizione in maniera soddisfacente, assicurano i medici. Urge però una migliore comprensione delle cause e dei fattori che possono aggravare o rendere cronica questa patologia, così come sono auspicabili una migliore terapia farmacologica e la possibilità di fare prevenzione. (Adnkronos Salute)

lunedì 6 ottobre 2008

TUMORI: MELANOMA, STUDIO ITALIANO SVELA GENE IMPUTATO

Melanoma cutaneo, è tutta colpa del sole? E' convinto di no Simone Mocellin, ricercatore del Dipartimento di Scienze oncologiche e chirurgiche dell'università di Padova. In una metanalisi pubblicata su 'Cancer', Mocellin e colleghi dimostrano infatti che in oltre il 9% dei casi di melanoma esiste una corrispondenza diretta tra un particolare polimorfismo del gene per il recettore della vitamina D e l'insorgenza del melanoma. Il team padovano ha preso in esame 5 varianti del recettore della vitamina D (Vdr), e ha dimostrato come il polimorfismo Bsml sia responsabile del 9,2% dei casi di melanoma. Un dato che tiene conto dell'incidenza di questo tumore nella popolazione caucasica e della frequenza di quel determinato polimorfismo nella stessa popolazione. "Certo il fattore ambientale più a rischio per lo sviluppo del melanoma resta la scottatura solare - precisa Mocellin - Ma poiché l'esposizione al sole attiva la vitamina D, se questa avviene senza scottature risulta addirittura protettiva nei confronti del melanoma". Allo stato attuale, è possibile identificare la popolazione portatrice del polimorfismo Bsml solo attraverso sofisticate analisi in laboratori attrezzati per sequenziare il Dna, per cui un test genetico di screening della popolazione generale non è ancora ipotizzabile.

lunedì 25 agosto 2008

OTTENUTE CELLULE 'BAMBINE' DA DENTI DEL GIUDIZIO

Cellule staminali ottenute dai denti del giudizio di una ragazzina di appena 10 anni. A riuscire nell'impresa un'équipe di ricercatori giapponesi del National Institute of Advanced Industrial Science and Technology (Aist). I cosiddetti denti della saggezza, dunque, potrebbero essere una potenziale fonte per creare staminali 'bambine', superando così i conflitti etici sull'uso di embrioni. Anche se, precisano gli studiosi guidati da Hajime Ogushi, ci vorranno almeno cinque anni prima che i risultati di questa importante ricerca possano essere trasferiti e abitualmente usati nella pratica medica. I ricercatori nipponici della Aist, sentiti dall'agenzia France Press, hanno spiegato di aver trovato nei denti del giudizio della piccola delle staminali in grado di differenziarsi in altri tipi di cellule. Una capacità, questa, che rende le embrionali estremamente 'appetibili' nella ricerca di cure per malattie incurabili. Le staminali prelevate sono state coltivate in laboratorio per oltre un mese. Due i benefici potenziali, precisa Ogushi. "Da un lato - spiega - potremmo superare o conflitti etici legati all'uso di embrioni. I denti del giudizio sono comunque destinati ad essere gettati via, quindi non ci saranno certo obiezioni da sollevare sul loro uso. Inoltre, i denti usati nel nostro esperimento sono stati prelevati tre anni fa e conservati nel freezer. Ciò significa che è facilmente realizzabile un 'magazzino' che funga da sorgente di cellule staminali, una fonte potenzialmente preziosissima per la ricerca". Già in passato studiosi giapponesi avevano stupito con le loro scoperte in questo campo. Lo scorso anno, ad esempio, un'équipe di ricercatori nipponici aveva annunciato di aver creato cellule staminali dalla pelle.

sabato 2 agosto 2008

DIABETE: IL RICERCATORE, FRA POCHI ANNI PANCREAS ARTIFICIALE

Potrebbe essere dietro l'angolo il pancreas artificiale. Parola di diversi ricercatori internazionali al lavoro su questo organo, convinti che in un futuro prossimo il pancreas artificiale potrebbe cambiare la vita ai diabetici. Secondo Roman Hovorka dell'Università di Cambridge (GB), che sta testando alcuni apparecchi sperimentali, il pancreas meccanico potrebbe arrivare negli ospedali fra qualche anno. Riducendo la necessità di iniezioni di insulina e test del sangue dalle dita per i pazienti con diabete. "Penso che ormai siamo alle soglie di un pancreas artificiale di prima generazione", ha detto lo studioso intervenendo a un meeting dei National Institutes of Health americani, tenutosi in questi giorni a Bethesda (Usa).

OBESITA': PER DIMAGRIRE ALMENO UN'ORA DI SPORT 5 GIORNI A SETTIMANA

Mezzora di sport cinque giorni a settimana fa bene alla salute. Ma per dimagrire non basta: se si desidera perdere almeno il 10% del proprio peso corporeo e mantenere la nuova linea, serve muoversi almeno un'ora tutti i giorni, escluso il week-end. A elaborare la ricetta con il giusto mix di calorie e attività fisica per tornare in forma, dedicata soprattutto alle donne, è uno studio dell'università di Pittsburgh (Usa) apparso sulla rivista 'Archives of Internal Medicine'. A un gruppo di 200 donne desiderose di dimagrire è stato consigliato un regime alimentare da 1.200-1.500 calorie al giorno e tre diversi programmi di attività sportiva dall'intensità crescente. Al termine della ricerca, dopo sei mesi, se tutte le partecipanti erano riuscite a perdere il 10% del loro peso iniziale, solamente quelle che avevano fatto sport per almeno 275 minuti a settimana avevano mantenuto il risultato. "Tutto questo - evidenziano gli autori - dimostra che per il mantenimento della propria salute è sufficiente muoversi mezzora al giorno, mentre se si vogliono buttare giù i chili di troppo occorre sforzarsi un po' di più".

martedì 15 luglio 2008

Salute: notti in bianco, chat e drink regalano peso alle ragazzine

Le cattive ragazze non vanno in paradiso, ma se sono adolescenti rischiano di ritrovarsi con qualche chilo di troppo. Sembra, infatti, che le notti in bianco passate magari a chattare su Internet, l'eccesso di drink e la passione per la Rete porti molte ragazzine ad aumentare di peso. A indagare sui nemici della linea delle adolescenti è uno studio pubblicato sul 'Journal of Pediatrics' e condotto da Catherine Berkey e dei colleghi della Harvard Medical School, del Brigham & Women's Hospital e della Washington University, su oltre 5.000 teenager tra 14 e 21 anni di tutti gli Stati Uniti. Ebbene, i ricercatori hanno scoperto che più tempo passato su Internet, più alcolici e meno sonno si traducono in un aumento di peso per le giovanissime. In particolare, a ingrassare di più rispetto alle altre sono le 'over 18' che consumano più di due superalcolici a settimana, o dormono meno di 6 ore a notte, e per di più sono appassionate del web. Uno stile di vita che rischia di regalare alle ragazze, in media, 2 chili in più l'anno. Insomma, secondo i ricercatori è bene mettere in guardia le giovanissime rispetto a queste nuove insidie per la linea, 'figlie' di uno stile di vita moderno. Anche perché queste cattive abitudini possono far aumentare gradualmente di peso, senza che nè le dirette interessate, nè i genitori, capiscano il perché.

Salute: fertilita' a rischio per uomini obesi o diabetici

Sono ridotte al lumicino le speranze di diventare papà se l'aspirante genitore deve fare i conti con i chili di troppo o il diabete. Due studi presentati a Barcellona, dove è in corso il 24esimo congresso della Società europea di riproduzione umana ed embriologia (Eshre), mettono l'accento sui rischi per la fertilità maschile provocati dall'eccesso di zuccheri e dall'obesità. "Gli uomi obesi - chiarisce Ghiyath Shayeb, dell'università di Aberdeen - se vogliono tenere in braccio il proprio bambino devono prima mettersi in testa di perdere peso, perchè tanti più sono i chili che devono portarsi dietro - aggiunge - minore sarà la quantità e la qualità di liquido seminale prodotto e alta la percentuale di anomalie negli spermatozoi". Le conclusioni dello studio scozzese sono suffragate dall’analisi dei dati raccolti tra 5.316 uomini che si erano rivolti in precedenza a centri per la fecondazione assistita. Di questi 2.037 hanno fornito tutte le informazioni personali, comprese quelle sul proprio indice di massa corporea. Quindi, gli scienziati hanno diviso gli aspiranti papà in quattro gruppi, da quelli sottopeso a quelli fortemente sovrappeso. E dopo aver standardizzando i dati 'depurandoli' dagli altri possibili fattori che incidono sulla fertilità - come il fumo, l'abitudine all'alcol, l'età o il tempo di astinenza prima del prelievo del liquido seminale - hanno scoperto il ruolo del peso nel determinare la qualità dello sperma. "Gli uomini appartenenti al gruppo delineato dai parametri di peso normale - rivela Shayeb - sono risultati quelli con la maggiore quantità di seme, e di qualità nella norma". Il secondo studio, della Queen’s University di Belfast rivela invece come "il diabete daneggi il Dna dello sperma. Tanto che - spiega Con Mallidis - l'aumento del numero dei diabetici in eta’ giovanile coincide con il problema dell'infertilità maschile in ascesa". Lo scienziato spiega che i danni prodotti dall'eccessiva presenza di zuccheri nell'organismo si riflettono a livello molecolare. Studiando campioni di sperma prelevato a uomini sottoposti a insulinoterapia, infatti, Mallidis ha scoperto che "all’esame con il microscopio le differenze tra uomini diabetici e sani sono lievi, ma se si analizza il Dna il quadro diventa un altro, con numerose anomalie proprio nel sistema di 'riparazione' del codice genetico, dunque del Rna. Soprattutto si osserva una diminuzione di una proteina responsabile della produzione della sperminina e spermidina, che regolano la crescita delle cellule e stabilizzano il Dna. E allo stesso tempo aumentano invece i livelli di un composto, nel tratto riproduttivo maschile, legato alla presenza degli zuccheri e in grado di daneggiare il Dna", conclude lo scienziato.

Salute: fertilita' a rischio per fumatrici over30 e in carne, amanti caffe' e drink

Emancipazione femminile nemica del desiderio di diventare mamma. E' questo il dilemma 'in rosa' che ancora una volta emerge dal 24esimo congresso della Società europea di riproduzione umana ed embriologia (Eshre), in corso a Barcellona, in Spagna. Se è vero che i problemi di fertilità riguardano sempre più spesso anche lui, resta evidente come stile di vita occidentale e ambizioni di maternità non vadano d'accordo. Caffè e alcol, per esempio, riducono la fertilità delle donne che già hanno problemi a concepire naturalmente un bimbo. Ma 'sotto accusa' finiscono anche l'alcol, il fumo di sigaretta e i chili di troppo. Uno studio olandese della Radboud University, presentato nel corso del meeting, rivela infatti come bastino 4 tazze di caffè per tagliare di oltre un quarto (26%) le chance di restare incinta. La ricerca, condotta su 9 mila donne ha evidenziato come le stesse percentuali di insuccesso siano attribuibili a quante si concedano qualche drink alcolico tre volte a settimana. Ma più del caffè e dell'alcol possono le sigarette e il sovrappeso, capaci di ridurre a lumicino le speranze di maternità fino a un esiguo 5% per le donne che a 36 anni fumano e hanno addosso qualche chilo di troppo. Oltre a indulgere troppo in caffè e alcol. Evidenze rimarcate anche da Andrea Borini, ginecologo e direttore scientifico di Tecnobios Procreazione che, in base alla sua esperienza rivela come "il sovrappeso sia il nemico numero uno dell'ovulazione, e anche delle probabilità di portare a termine una gravidanza. Colpa di ipertensione, diabete e gestosi. Tanto che ogni ginecologo serio dovrebbe suggerire alla propria paziente con qualche chilo di troppo di dimagrire prima di tentare di restare incinta". Il fumo fa altrettanto male "perchè - ricorda il medico italiano - danneggia i tessuti delle tube". Ma un po' di attenzione va prestata anche all'età, vero termometro della capacità di diventare madri. "Le probabilità di restare incinte - rivela Borini - raggiungono il picco massimo intorno ai 20 anni, quando si attestano a circa il 30% per ogni rapporto nel periodo fertile. Più in generale - aggiunge - il 70% delle ventennni riesce ad avere una gravidanza entro sei mesi. Un ulteriore 15% nell’anno successivo mentre il restante 15% ha già a quell'età problemi di sterilità". Le cose però si complicano rapidamente. Già a 30 anni "le probabilità di restare incinta subito sono scese al 20%, per poi precipitare rapidamente", conclude il ginecologo.

martedì 17 giugno 2008

Il caffe' allunga la vita. Fino a 6 tazzine al giorno diminuiscono i rischi di malattie cardiache e tumori soprattutto nelle donne

Il caffe' allunga la vita. Lo rivela uno studio statunitense pubblicato sugli Annals of Internal Medicine. Fino a sei tazzine al giorno, assicurano i ricercatori Usa assoldati dai National Institutesof Health, contribuiscono a proteggere il cuore. "Non e' vero - dicono- che il caffe', con o senza caffeina, aumenti le probabilita' di morire. Ma anzi allunga la vita sia agli uomini che alle donne", sostiene l'equipe coordinata da Esther Lopez-Garcia, che ha analizzatoi dati su 84.214 donne e 41.736 uomini. Tutti, all'inizio del big-study, senza malattie cardiache o cancro, e seguiti dal 1980 fino al 2004. Numeri alla mano, i ricercatori hanno verificato che gli effettisi dispiegano con maggiore evidenza nelle donne. Se bevono due-tre tazze di caffe' al giorno, le amanti di questa bevanda si vedono ridurre del 25% le probabilita' di morire di malattie cardiache, rispetto a quante non bevono affatto caffe'. E le tazzine svelano anche un effetto protettivo contro altre malattie, riducendo in generel'incidenza della mortalita' del 18%. Per gli uomini lo stesso dosaggio di caffe', invece, non sposta le probabilita' di malattie delcuore, tumori o altro. Quindi non fa ne' bene ne' male. Ciascun partecipante allo studio durante il lungo periodo di osservazione ha compilato, con scadenza regolare, un questionario in cui venivano annotate le proprie abitudini: quanto caffe' veniva consumato, ma anche il tipo di regime alimentare seguito, l'abitudine o meno al fumo e altri possibili comportamenti che possano incidere sullo stato di salute. Una volta scorporati i dati dalle possibili influenze di altri fattori di rischio, e' quindi emerso che il caffe' rappresenta un fattore protettivo o tutt'al piu' 'neutro'. "Ma di certo non peggiorativo dello stato di salute o dei rischidi decesso, come invece spesso e' stato detto", sottolineano gli scienziati, per i quali dietro all'effetto-caffe' non ci sarebbe pero'uno degli ingredienti caratteristici della bevanda, cioe' la caffeina,perche' i medesimi effetti benefici si riscontrano sia che si beva la bevanda tradizionale, che quella decaffeinata. Resta dunque ancora da accertare perche' qualche tazzina al giorno non faccia male, anzi.

martedì 10 giugno 2008

Cannabis: uso frequente 'restringe' aree cervello di memoria ed emozioni

Fumare troppo spesso marijuana fa 'restringere' il cervello. Questo l'allarme dei ricercatori australiani dell'università di Melbourne, secondo cui un uso frequente e prolungato della cannabis determina un vero e proprio restringimento di alcune aree cerebrali. E in particolar modo quelle deputate alla memoria, alle emozioni e l'aggressività. La scoperta è arrivata confrontando le immagini della Risonanza magnetica ad alta risoluzione scattate al cervello di 15 fumatori abituali di marijuana, che hanno consumato almeno 5 spinelli al giorno per 10 anni, e di altre persone che non avevano mai fatto uso di cannabis. In particolare, l'ippocampo, la 'centrale' della memoria e delle sensazioni, è risultato più piccolo in media del 12%. Mentre l'amigdala che 'gestisce' rabbia e aggressività aveva un volume inferiore del 7,1%. Siccome i consumatori di marijuana erano tutti bevitori di alcol moderati, e non avevano fatto uso di altre sostanze stupefacenti oltre le 10 volte nei 10 anni presi in considerazione, "gli effetti sul cervello sono da imputare direttamente alla cannabis", sentenziano gli scienziati, autori di uno studio pubblicato sugli Archives of General Psychiatry. E le conseguenze del restringimento cerebrale sono state certificate, dai ricercatori, attraverso dei test sulla memoria che hanno dimostrato come i fumatori di cannabis abbiano una memoria a breve e lungo termine peggiore degli altri. "Nonostante il campione di consumatori di marijuana avesse un'età media di 39 anni, le performance della memoria erano quelle di 55-60enni", spiega il coordinatore dello studio, Murat Yucel. Ma c'è di più, avverte lo psichiatra: "queste persone sono maggiormente predisposte a sintomi psicotici come paranoia o isolamento sociale". E per chiarire maggiormente la relazione diretta tra fumo di cannabis e conseguenze sul volume cerebrale, gli scienziati sottolineano che "tanto più si consuma marijuana, maggiore sarà l'effetto di restringimento del cervello".

Tumori: l'esperta, occhio a dieta nemica del seno

E' ricca di burro, carboidrati (pane e pasta), grassi animali e zuccheri raffinati la dieta nemica del seno. "Tutti alimenti che fanno salire l'indice glicemico e che sono ormai collegati a un aumento del rischio di tumore". Lo spiega Daniela Terribile, chirurgo senologo del Policlinico Gemelli di Roma, che racconta all'ADNKRONOS SALUTE come queste supposizioni siano state confermate dall'osservazione di ciò che accade alle donne di origine orientale, trapiantate in Occidente. "E' noto che le asiatiche sono meno colpite dal cancro al seno. Ma quando si trasferiscono nei Paesi occidentali - prosegue la specialista - la situazione cambia". Tanto che le loro figlie perdono lo 'scudo' materno. "L'incidenza di cancro al seno nelle generazioni successive - prosegue il chirurgo - è analoga a quella che si registra tra le occidentali. Questo ci ha fatto pensare a un ruolo chiave dello stile di vita, e in particolare delle abitudini alimentari". Non a caso, prosegue l'esperta, anche guardando alla Penisola i numeri del cancro al seno sono diversi da Nord a Sud. "Nel Settentrione, dove la dieta è più ricca di burro e grassi animali, le donne sono più colpite da questo tumore rispetto al Meridione, più 'affezionato' a olio extravergine d'oliva e pesce". In generale, secondo l'esperta, "il menù amico del cuore si rivela alleato anche del seno. Gli alimenti da limitare sono gli stessi potenzialmente dannosi per la salute cardiovascolare". Ma l'esperta suggerisce alle donne di tutte le età di seguire uno stile di vita attivo. "Concedersi delle pause all'aria aperta e fare esercizio con regolarità è utile contro lo stress, ma anche per la salute del seno", assicura. Infine, occhio all'alimentazione 'all'americana', a base di hamburger e patatine fritte, che ha conquistato le giovani generazioni del Belpaese. "Gli effetti sulla salute, anche quella del seno, rischiano di farsi sentire nei prossimi 10 anni", ammonisce.

Salute: broccoli nel piatto per ossa sane, grazie a vitamina K

Broccoli panacea di salute. Non solo rappresentano uno degli alimenti con maggiori proprietà anticancro, ma ora si dimostrano amici anche delle ossa. Complice l'alto tasso di vitamina K. Questa verdura dunque, "come anche gli spinaci, i cereali e l'olio vegetale - rivelano due studi, entrambi scozzesi e pubblicati sul quotidiano Daily Mail - aumentano la densità ossea e riducono la perdita di massa nelle donne appena entrate in menopausa". La ricerca condotta dall'ateneo di Aberdeen su donne tra i 49 e i 54 anni ha mostrato una relazione diretta tra alte dosi di vitamina k e maggiore densità ossea. I 'colleghi' dell'università di Dundee hanno rilevato invece che le vitamine K e D, insieme al calcio, fanno aumentare la densità delle ossa. Aggiungendo che "gli effetti possono essere raggiunti semplicemente scegliendo la dieta giusta, senza fare ricorso a integratori alimentari".

mercoledì 4 giugno 2008

Sesso: allarme adolescenti, in aumento sifilide e clamidia

Precoci, disinformati, promiscui. E sempre più a rischio malattie sessualmente trasmesse. I dermatologi lanciano l'allarme: sono gli adolescenti i primi a cadere nella rete di patologie come la clamidia, in aumento del 2% o la sifilide che torna a colpire dopo anni di silenzio, facendo registrare una lenta ma incessante recrudescenza del fenomeno. Le vittime ideali? Sono i 'bad guy' all'italiana: ragazzi alla continua ricerca dell'avventura di una sera, incuranti dei rischi e 'nemici' del profilattico, ma in compenso irrimediabilmente affascinati dal mondo dello sballo. Sesso e droga, un connubio che moltiplica i rischi. "L'uso di sostanze stupefacenti non fa che aggravare le malattie, interferendo anche con l’azione dei farmaci", avverte Mario Aricò, presidente della Sidemast (Società italiana di dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle malattie sessualmente trasmesse), società scientifica che insieme all'Adoi (Associazione dei dermatologi ospedalieri italiani) organizza a Napoli, dal 28 al 31 maggio, il quarto Congresso nazionale unificato di dermatologia e venereologia. Il fenomeno è ancor più grave se riferito alla sifilide. "In questo caso la droga crea problemi depotenziando gli effetti della penicillina". Con conseguenze per la salute, legate anche al fatto che l’organismo ha più difficoltà a smaltire i farmaci. Gli esperti della Sidemast hanno osservato un ritorno di questa malattia dimenticata. La sifilide, che sembrava essersi estinta grazie alla scoperta della penicillina, è oggi una patologia in crescita. Soprattutto fra i giovani. Attualmente in Italia, spiega Aricò, si contano 1.200 nuovi casi. "Dopo l'impennata registrata nel 2001 e nel 2002 - ricorda il dermatologo - c'è stato un rallentamento. Ma la sifilide continua a correre e anche quest'anno i pazienti sono aumentati del 5%". A preoccupare gli esperti sono soprattutto le ragazze incinte che rappresentano il 10% dei pazienti. Una situazione ritenuta ancora più a rischio, dal momento che le mamme possono trasmettere l'infezione al nascituro attraverso la placenta. "In casi come questi - prosegue Aricò - è importante capire quando la giovane ha contratto la malattia per curarla tempestivamente con una terapia adeguata. Se la donna si è ammalata durante il primo o il secondo mese di gravidanza, il rischio di contagio è molto alto. Occorre intervenire al più presto per evitare patologie importanti al bambino: la sifilide congenita ha forme estremamente gravi. Se non la si riconosce può portare all'aborto o causare notevoli malformazioni al feto". Nel mirino della malattia finiscono soprattutto i giovani perché, spiega l'esperto, hanno abbassato la guardia. "Non c'è più attenzione ai campanelli d'allarme. Spesso i segnali fisici vengono ignorati e nel nostro reparto, nella clinica dermatologica dell'università di Palermo - segnala Aricò - arrivano sempre più pazienti con una sifilide allo stadio secondario". Alla diagnosi si arriva con circa 6-8 mesi di ritardo. Lo stesso avviene con le uretriti non gonococciche da clamidia. Infezioni sempre più diffuse nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni. L'aumento che è stato registrato quest'anno è del 2% circa. "Si tratta di patologie che possono dare problemi gravi soprattutto alla donna - avverte - perché impegnano tutto l'organo genitale. Un'infezione pelvica disseminata in soggetti immunodepressi può anche trasformarsi in setticemia". I dermatologi hanno anche problemi a capire quanti adolescenti contraggono la malattia: "I numeri che possiamo raccogliere negli ospedali non sono credibili - osserva Aricò - anche perché c'è una sacca di casi sommersi non indifferente. Spesso i ragazzi preferiscono restare nell'anonimato e si rivolgono ai propri amici, piuttosto che ricorrere all'aiuto di un medico".

sabato 31 maggio 2008

Calcolosi urinaria

La calcolosi urinaria è una malattia dell’apparato urinario che si sviluppa al formarsi di calcoli urinari.Questi sono degli aggregati solidi (una sorta di piccoli sassi), che si depositano nelle cavità dell'apparato urinario, più comunemente costituiti da ossalato di calcio o da acido urico.La produzione dei calcoli deriva dal superamento della concentrazione massima consentita dei sali in soluzione nelle urine, in modo tale che i sali stessi tendono ad aggregarsi fino a formare dei cristalli; il compattarsi tra loro di questi ultimi fa insorgere il calcolo.Quando i calcoli sono di dimensioni piuttosto ridotte e sono situate in determinate posizioni, solitamente non arrecano fastidi.Qualora, però, il calcolo si ingrossi e/o migri in zone più sensibili, i sintomi di quella che viene definita “colica renale” diventano tra i più dolorosi che si possano conoscere: un dolore acuto, di solito di tipo intermittente, aggredisce un fianco, fino ad estendersi alla regione lombare.Non di rado, durante una colica renale, il paziente manifesta nausea, vomito, sudorazione, senso di gonfiore addominale e sangue nelle urine.La colica renale viene solitamente curata con farmaci antidolorifici, mentre la terapia dei calcoli urinari è diversa a seconda della sede del calcolo, delle sue dimensioni, della sua presunta composizione e degli effetti determinati dal calcolo sull'apparato urinario.Poiché i calcoli tendono con il tempo ad aumentare di dimensioni (con il rischio crescente di causare infezioni urinarie e danni talvolta irreparabili ai reni), è opportuno intervenire non appena l’urologo riterrà che sia giunto il momento.Le tecniche tradizionali di tipo chirurgico sono state quasi del tutto sostituite da metodologie caratterizzate da una minima invasività, tra le quali la “litotrissia extracorporea ad onde d'urto” (ESWL), che consiste in un trattamento attuato senza anestesia mediante un apparecchiatura in grado di frantumare i calcoli attraverso l'emissione di speciali onde energetiche.Assai utilizzate sono anche la “litotrissia percutanea renale” (PNL) (intervento chirurgico endoscopico, che richiede un'anestesia generale, eseguito mediante uno strumento ottico denominato nefoscopio) e la “litotrissia ureterale endoscopica” (intervento chirurgico endoscopico, che richiede un'anestesia spinale, eseguito mediante uno strumento ottico denominato ureteroscopio).E’ da evidenziare che alcuni particolari tipi di calcoli, in particolare quelli composti da acido urico, possono essere sciolti con l'utilizzo di alcuni farmaci e combattuti, anche in via preventiva, con una dieta povera di sostanze ad alto contenuto di acido urico (come carni, specie grasse).E’ di ausilio, in ogni caso, introdurre regolarmente notevoli quantità di liquidi nell’organismo, in particolare acque oligominerali, ossia a basso contenuto di sali minerali.

lunedì 19 maggio 2008

Per il fegato, carciofo e cardo mariano

Il nostro apparato digerente è costituito dal tubo digerente, che inizia a livello della cavità orale e termina a livello del retto, e da due grossi organi annessi, il fegato ed il pancreas: questi servono alla produzione dei succhi digestivi indispensabili per la digestione e l’assorbimento dei grassi, delle proteine e dei carboidrati presenti negli alimenti.
E la loro attività è legata a numerosi fattori di ordine fisico ma anche chimico, come ad esempio l’acidità o alcalinità degli alimenti, la presenza più o meno consistente di grassi, di alcool, ecc.
Si tratta cioè di un apparato di per sé molto complesso, il cui buon funzionamento, forse più di ogni altro apparato, risente costantemente del tipo di alimentazione.
La fitoterapia tradizionalmente ci consente di utilizzare sostanze di origine vegetale in grado di migliorare certe funzioni specifiche di questo apparato.
Oggi parleremo delle piante più facilmente utilizzabili per le loro funzioni sul distretto epato-biliare, sul fegato cioè e sulle vie biliari, che servono a raccogliere la bile prodotta dal fegato e ad immetterla nell’intestino al momento dell’arrivo del cibo nel tratto duodenale.
Le piante maggiormente studiate e utilizzate sono due, molto simili morfologicamente, ma con indicazioni abbastanza diverse tra loro: il Cardo mariano ed il Carciofo.

Cardo mariano.
Il Cardo Mariano (Silybum marianum Gaertner) è una robusta pianta erbacea, originaria dai paesi del bacino mediterraneo, ed oggi in realtà prevalentemente coltivata a scopo farmaceutico e cosmetico.
La parte utilizzata è rappresentata dal frutto, impropriamente chiamato seme, piuttosto che le foglie, un tempo di uso comune invece nella medicina popolare. Il Cardo mariano è la pianta che per eccellenza si merita il tanto discusso appellativo di epatoprotettore, impropriamente ritenuta un "depurativo del fegato" offre in realtà un vero e proprio complesso di sostanze capaci di proteggere le cellule del fegato (epatociti) dai danni di varie sostanze tossiche quali l'alcool, il fumo, i farmaci, ecc. Queste sostanze appartengono alla categoria dei flavolignani, presenti nei suoi semi, e formano un fitocomplesso denominato ormai universalmente silimarina, prevalentemente costituito da tre molecole (silibina, silicristina e silidianina) per la quale, a carico del fegato, sono state ampiamente dimostrate le seguenti proprietà farmacologiche:
· stabilizzazione delle membrane cellulari e lisosomiali
· effetto antiossidante e radical 'scavenger'
· inibizione della perossidazione dei lipidi
· effetti antiinfiammatori ed antifibrotici
· stimolo per la glicuroconiugazione e la biosintesi proteica
· accellerazione della rigenerazione epatica
Anche recentemente è stato ricomfermato il ruolo dei flavolignani del Cardo mariano nella terapia delle epatopatie tossiche, epatiti croniche, fibrosi e cirrosi epatiche e come antidoto nelle intossicazioni da Amanita phalloides (con somministrazione di silimarina per via endovenosa). Nel complesso la silimarina migliora la funzionalità dell'epatocita, con un' attività epato-protettrice, anti-necrotica e lipotropa. La Silimarina è oggi utilizzata anche in cosmesi per le proprietà antiossidanti ed eudermiche.
La raccomandazione importante è quella di non utilizzare gli estratti di Cardo mariano sotto forma di tisana, di estratto secco o di tintura alcolica, bensì sotto forma di silimarina, cioè di fitocomplesso purificato, peraltro disponibile in numerosi preparati del commercio ed in vere e proprie specialità medicinali.

Carciofo.
Contrariamente a quanto ritenuto, del Carciofo (Cynara scolymus) si utilizzano le foglie della pianta e non il frutto, abitualmente apprezzato come ortaggio. E’ opinione comune che il Carciofo sia la pianta ideale per curare e proteggere il fegato, ma la ricerca scientifica e gli impieghi clinici hanno invece dimostrato che i suoi estratti sono particolarmente indicati nei disturbi delle vie biliari piuttosto che del parenchima epatico vero e proprio.
I costituenti chimici più importanti sono rappresentati dai polifenoli (flavonoidi, tannini e i derivati dell'acido clorogenico), poliacetileni, steroli, acidi organici sali minerali e componenti volatili aromatici. Oggi sappiamo anche che la cinarina, un tempo ritenuta il principio attivo del carciofo, in realtà non è presente nella pianta, ma si forma soltanto durante il processo di essiccamento.
Le reali proprietà farmacologiche attribuite al Carciofo, verificate anche con studi sull'animale, sono:
· coleretico
· diuretico
· ipolipemizzante
Mancano invece verifiche e conferme con studi condotti sull' uomo (e sull'uomo malato) per le proprietà epatoprotettrici, antielmintiche, ossitociche, antibatteriche ed antivirali. Tutte attività farmacologiche che pure sono state sperimentate in vitro o sull'animale.
Così come mancano studi sulle proprietà depurative del carciofo nei soggetti con insufficienza renale, malattie dermatologiche, dalla psoriasi al prurito, dall'orticaria ai foruncoli; tutte indicazioni che avevano invece trovato un certo credito nella credenza popolare.
Gli estratti di Carciofo quindi possono razionalmente essere utilizzati per fluidificare la bile e migliorare il quadro funzionale del soggetto dispeptico, attivare il catabolismo epatico del colesterolo e ridurre il rischio di calcolosi biliare.
Mentre le tinture e le tisane rappresentano vecchie preparazioni, peraltro amare e non titolate, si consiglia invece il ricorso all'uso di estratti secchi standardizzati. Il Carciofo è presente anche in Farmacopea.
Opportunamente prescritte dal medico queste due piante possono quindi servire nella prevenzione cura di disturbi o patologie rispettivamente del fegato (Cardo mariano) e delle vie biliari (Carciofo). www.naturamedica.net

Il primo mese di Vita..

Sabato 17 maggio la nostra redazione ha compiuto il primo mese di vita, si ringraziano tutti gli amici che in questo primo mese hanno condiviso con noi le informazioni e le notizie contenute in questo blog. Grazie

Esofagite e reflusso gastroesofageo

L’esofagite è una patologia dell’apparato digerente che, specie negli ultimi decenni, si sta diffondendo in maniera preoccupante, soprattutto nei Paesi Occidentali, fino a colpire quasi un Italiano su tre, in prevalenza donne e con un età di circa sessanta anni, anche se non di rado si presenta in gravidanza o nei neonati. Come si ricava dall’etimologia greca della parola, l’esofagite consiste in un’infiammazione dell’esofago, ossia del canale che, per il tramite di una valvola detta “cardias”, permette il passaggio del cibo fino allo stomaco. Più precisamente, si parla di vera e propria esofagite ogni qual volta sulla mucosa dell’esofago sono rintracciabili, mediante gli opportuni esami (tra i quali va assegnato oggi un ruolo di primo piano alla gastroscopia), delle lesioni di gravità variabile, che vanno da piccolissime ferite a erosioni e ulcere di grandezza anche molto preoccupante. Le lesioni sono provocate dall’azione corrosiva svolta dal materiale acido che, per un errato funzionamento del cardias, risale dallo stomaco all’esofago. Quando, infatti, la valvola appena citata non si richiude subito dopo il transito del cibo, una parte di quest’ultimo, insieme ai succhi gastrici e agli acidi prodotti dallo stomaco per favorire la digestione, risale verso l’esofago, organo non dotato di sistemi in grado di neutralizzare e rendere innocui tali sostanze acide e corrosive. Le cause che determinano l’insorgere di questa malattia possono essere diverse e la loro reale incidenza non è stata ancora dimostrata in modo scientifico; è stato provato, tuttavia, che può essere cagionata da infezioni, da radioterapia, da un uso ripetuto di certi tipi di farmaci (specie di tipo analgesico), da avvelenamento per assunzione di sostanze caustiche, da presenza di un’ernia iatale o da abuso di sostanze irritanti, quali alcolici, fumo, caffé, cioccolato o cibi eccessivamente grassi. Il fattore che provoca l’esofagite con una frequenza statistica più elevata di ogni altra causa, però, è il “reflusso gastroesofageo”, una malattia assai diffusa che, all’incirca nel 40% dei casi, è associata alla vera e propria esofagite ossia, come detto, a vere e proprie lesioni lungo la parete dell’esofago. Quanto ai sintomi tipici dell’esofagite, quelli caratteristici sono bruciore all’altezza dello sterno e senso di acidità, che parte dalla bocca dello stomaco e si propaga fino alla bocca, ove, subito dopo i pasti, possono verificarsi dei fenomeni di reflusso di bile e succhi gastrici, con risalita di una parte di cibo lungo l’esofago. Spesso le eruttazioni ripetute provocano spasmi che, non di rado, stimolano rigurgiti di sostanze acide. In alcuni casi, sono riscontrabili anche sintomi meno tipici, come dolore al torace, difficoltà di deglutire e perfino manifestazioni come tosse o laringite cronica, sanguinamento o fastidi all’orecchio. Per evitare il reflusso dei succhi gastrici attraverso la valvola è sufficiente, spesso, modificare in modo opportuno lo stile di vita: smettere di fumare, evitare gli alimenti e i condimenti piccanti o, comunque, irritanti visti poc’anzi, e masticare il cibo con calma, preferendo pochi pasti non eccessivi. E’ consigliabile, poi, non coricarsi subito dopo un pasto, specie se abbondante, e, al contrario, fare passeggiate anche brevi che aiutino la digestione. Non bisogna indossare pancere o abiti stretti in vita, né effettuare sollevamento di pesi o, comunque, sforzi con il busto protratto in avanti, i quali favorirebbero l’aumento della pressione sull’addome e, quindi, la risalita del cibo verso la bocca. Per i soggetti che manifestano i sintomi più gravi dopo cena, è solitamente di grande ausilio sollevare di alcuni centimetri il capezzale del letto, in modo che il busto risulti leggermente più in alto degli arti inferiori. Qualora l’adozione delle cautele preventive menzionate non riesca, da sola, a risolvere il problema, il medico normalmente prescrive dei farmaci specifici che tendano a ridurre il reflusso oppure a renderlo innocuo per le mucose dell’esofago. I medicinali più usati attualmente sono i c.d. “inibitori di pompa protonica”, che tendono a diminuire la produzione di succhi gastrici, mentre meno di frequente si ricorre ai c.d. “procinetici”, sostanze come metoclopramide, domperidone e levosulpiride, le quali migliorano il tono e, quindi, il funzionamento del cardias, la valvola che permette il corretto defluire del cibo e il regolare svuotamento dello stomaco. I farmaci più blandi, impiegati, per lo più, quando la patologia non è grave, sono i c.d. “antiacidi”, che attenuano il potere corrosivo e l’acidità della bile. Sarà lo specialista a stabilire se l’assunzione di un determinato farmaco sia necessaria solo all’occorrenza o per periodi anche molto prolungati. Quando neppure la terapia farmacologica funziona, non resta che porre rimedio con un’operazione chirurgica, la quale avrà lo scopo principale di apporre una barriera artificiale all’altezza del cardias, in modo da impedire il reflusso gastroesofageo; i metodi di plastica più diffusi allo stato attuale sono quello detto di “Dor” oppure quello di “Nissen-Rossetti”. In conclusione, si pone l’accento sulle possibili complicanze dovute a un’esofagite non curata in tempo. Innanzitutto, le cicatrici lasciate dalle ferite lungo l’esofago possono essere ad origine di un restringimento dell’esofago, ossia della c.d. “stenosi”, malattia piuttosto grave dell’apparato digerente. Ma la complicanza più temibile che, peraltro, sopravviene ben nel 10% circa dei casi di esofagite, è il c.d. “esofago di Barrett”. Quest’ultima patologia si verifica allorché le cellule che compongono la parete dell’esofago, per tentare di difendersi dagli attacchi degli acidi gastrici, mutano la loro essenza fino a trasformarsi in cellule che, similmente a quelle che compongono lo stomaco, sono capaci di neutralizzare e rendere inoffensive le sostanze biliari. Tale modificazione cellulare, tuttavia, è una condizione preoccupante perché aumenta sensibilmente il rischio di tumori all’esofago.

martedì 13 maggio 2008

Salute: lo studio, parlare piu' lingue fa bene al cervello

Via libera a tate straniere, asili multilingue e vacanze studio all'estero. Imparare a parlare idiomi diversi da quello del Paese nativo fa bene alla salute, almeno a quella della mente. Conoscere e 'masticare' lingue diverse mantiene giovane il cervello, e tiene lontani gli acciacchi legati all'età. La buona notizia per i poliglotti arriva dai ricercatori della Tel Aviv University (Israele), secondo i quali doversi districare tra diversi idiomi protegge la mente dall'invecchiamento. Il team di Gitit Kavé, neuropsicologa dell'Herczeg Institute on Aging dell'ateneo israeliano, ha scoperto infatti che gli anziani che parlano più lingue ottengono i risultati migliori ai test sulla funzionalità cognitiva, come si legge su 'Psychology and Aging'. "Non c'è un elisir miracoloso per tenere a bada gli acciacchi dell'età - ammonisce la studiosa - ma usare una seconda o una terza lingua può aiutare a prolungare gli anni buoni", quelli in cui la mente lavora con prontezza e acutezza. Infatti sembra proprio che un poliglotta, con il passare delle primavere, sia più lucido e pronto rispetto ai coetanei che conoscono una sola lingua. I diversi linguaggi possono creare nuovi legami cerebrali, contribuendo così alla salute della mente. La ricerca è basata sullo studio condotto dal 1989 su un gruppo di persone tra i 75 e i 95 anni. I ricercatori hanno indagato sulla conoscenza e l'abitudine a parlare diverse lingue (da due a tre e oltre), sottoponendo poi gli anziani a una serie di test cognitivi. Ebbene, il risultato non lascia dubbi. Più lingue si conoscono e si parlano, migliore è lo stato di cognitivo di una persona. "A regalare una mente pronta e lucida in tarda età contribuisce anche il grado di istruzione di un individuo", avvertono gli studiosi. Ma sembra che il numero di lingue parlate abbia un effetto benefico a sé. Insomma, avere un cervello giovane è una questione di parole, non solo di diploma o laurea. "Abbiamo scoperto che il fatto di sapersi esprimere in più lingue è correlato in modo più significativo allo stato cognitivo proprio negli anziani che non hanno studiato affatto", precisa la Kavé. A questo punto, evidenzia la studiosa, occorre interrogarsi sul legame tra le diverse lingue e la giovinezza prolungata della mente. Sono le prime a provocare la seconda, o il fatto di aver imparato idiomi diversi non è che il segno di una mente particolarmente acuta, destinata a invecchiare più lentamente del normale? In ogni caso, conclude la Kavé, conoscere una lingua in più oltre a quella nativa non è che una cosa positiva. "Nella mia esperienza professionale le lingue diverse sono benefiche a ogni età: regalano una flessibilità di pensiero - conclude - e un canale in più per comprendere le altre culture al meglio".

Alcol: lo studio, scritta nei geni l'eta' dei primi drink

L'età in cui si inizia con i primi drink è scritta nei geni. O meglio: è anche il nostro Dna a dire la sua su quando si comincia a bere, mentre l'ambiente sociale influenza la quantità di alcol che si manda giù. La prova arriva da uno studio sui gemelli, realizzato dai ricercatori dell'ateneo di Nijmegen (Olanda). Gli studiosi olandesi hanno monitorato i comportamenti di 694 coppie di gemelli, sia maschi che femmine, tra i 12 e i 15 anni. Una parte del campione era composto da gemelli identici, omozigoti, un'altra da eterozigoti. Per separare l'influenza genetica da quella ambientale e sociale, i ricercatori hanno analizzato la data in cui ciascun teenager ha iniziato a bere alcolici e la frequenza. Dai dati dello studio, che verrà pubblicato in giugno sulla rivista 'Alcoholism: Clinical & Experimental Research', è emerso che i geni sono il fattore che incide maggiormente su quando si comincia a bere. In particolare, il Dna è determinante per l'83% dei maschi e il 70% delle femmine. Mentre i fattori ambientali e sociali risultano responsabili della frequenza con cui l'82% degli adolescenti beve alcolici. "Spesso si pensa che l'età dei primi drink sia sostanzialmente legata a fattori sociali, ma non è così - spiega Evelien Poelen, che ha coordinato il progetto - Questo studio mostra che anche i fattori genetici sono coinvolti nell'inizio precoce. Per i genitori è quindi importante non 'stimolare' questi geni, impedendo ai figli di avvicinarsi all'alcol precocemente, anche in assenza di situazioni ambientali pericolose".

domenica 11 maggio 2008

Ictus: colpisce italiani sempre piu' giovani, sotto accusa ecstasy e cocaina

L'ictus? Non è solo 'roba da vecchi'. In Italia sale drammaticamente l'incidenza di questo temibile attacco tra i giovani, con ben 10.400 persone colpite ancor prima di aver spento le 55 candeline. Di questi, addirittura 4.200 hanno meno di 45 anni. E le cose sono destinate a peggiorare con il trascorrere degli anni. Sotto accusa finisce l'abuso di droghe, sempre più diffuso tra i giovani italiani. In particolare, le sostanze eccitanti come cocaina, anfetamina ed ecstasy. "Insomma quelle che comunemente vengono definite le droghe del sabato sera", conferma Danilo Toni, presidente dell'Associazione italiana ictus. A margine della presentazione, oggi a Roma, della IX Giornata nazionale contro l'ictus cerebrale, l'esperto ci tiene tuttavia a precisare che alla base dell'ictus giovanile "vi sono soprattutto cause genetiche, nonché dissecazione delle arterie carotidee e vertebrali causata da traumi o microtraumi ripetuti al collo". Ma anche le droghe eccitanti finiscono sul banco degli imputati, e, accanto all'invecchiamento generale della popolazione, il loro abuso è una delle cause destinata a far aumentare, negli anni a venire, il numero delle persone colpite da ictus. E' un fulmine a ciel sereno che sconvolge la vita di 200 mila italiani l'anno. E' l'ictus cerebrale, un killer silenzioso che ogni anno uccide nel nostro Paese 70 mila persone, mentre altre 50 mila restano con un'invalidità grave che li priva della loro indipendenza. Sono ben 900 mila i connazionali che, nel corso della loro vita, sono stati colpiti da un ictus. Di questi, tantissimi ne portano il segno, indelebile nel corpo oltre che nella memoria. Per mettere in guardia gli italiani da questo nemico giurato della salute, martedì prossimo partirà la settimana nazionale contro l'ictus cerebrale, presentata oggi a Roma in una conferenza stampa presso il Policlinico capitolino Umberto I. Dal 13 al 18 maggio prossimi, sono previste visite gratuite nei principali ospedali della Penisola con screening del rischio ictus, controllo della pressione arteriosa e calcolo del rischio cardiovascolare. Non solo. La campagna, promossa dalla Federazione Alice Italia onlus, porterà nelle piazze di numerose città appositi stand, dove medici e volontari forniranno consigli e indicazioni su come comportarsi in caso di 'emergenza ictus', un temibile imprevisto che, oltre a sconvolgere la vita di chi ne è colpito, grava pesantemente sulle casse del Ssn. In Italia, infatti, l'ictus assorbe circa 3,70 miliardi di euro l'anno solo di costi diretti, quasi il 4% dell'intera spesa sanitaria del nostro Paese.

martedì 6 maggio 2008

Anticancro under 40

di Umberto Veronesi
Il grande male colpisce a ogni età. E aumentano i casi tra i giovani adulti. Ma con la prevenzione la battaglia si può vincere. Cominciando presto a fare i controlli. Abbandonando fumo e grassi. E vaccinandosi contro il virus dell'Hpv. Il celebre oncologo spiega come salvarsi la vita .

A scuola m'interessavano di più le materie scientifiche, ma mi piaceva molto anche l'italiano. Con un grande interesse per le regole della linguistica, e con la curiosità di rintracciare le radici delle parole, che a volte sembrano montate secondo le modalità di un semplicissimo puzzle. Prevenzione, ad esempio, è l'atto, l'effetto del pre-venire. E prevenire ha due significati: precedere qualcuno o qualcosa arrivando prima; e provvedere in anticipo, cercando di evitare qualcosa. L'Associazione italiana per la ricerca sul cancro dedica la sua giornata dell'11 maggio all'urgenza di anticipare i tempi della prevenzione, che colpisce ormai molto anche i giovani adulti. Per loro, per le giovani donne che si ammalano di tumore del seno o per le adolescenti che devono scegliere se vaccinarsi contro il tumore della cervice, mi sembra particolarmente urgente e importante sottolineare che arrivare "prima" del tumore, evitandolo grazie agli stili di vita sani, o battendolo con la diagnosi precoce, significa lavorare sul tempo. Fortunatamente, tranne rari casi di neoplasie fulminanti, il tempo gioca a favore della prevenzione, perché in genere un tumore impiega molto tempo per svilupparsi. Io l'ho definita "la lunga notte del tumore", con l'intento di richiamare l'attenzione sul fatto che proprio questa lunga incubazione ci mette nella condizione di poter fare prevenzione. Anche per i più giovani.In sostanza, la proliferazione tumorale è un processo multifasico, che può durare anche tutta una vita. La crescita cellulare può, nella fase iniziale, non superare quella che chiamiamo "sorveglianza immunitaria": le difese del nostro organismo individuano le cellule tumorali e le eliminano. Si tratta di piccoli miracoli silenti che continuano ad avvenire nel nostro corpo, di cui non ci accorgiamo, di cui non rimane traccia. Che è andata bene, insomma. Negli altri casi, il Dna cellulare, intaccato dagli agenti cancerogeni, subisce un'alterazione che non viene né riparata né bloccata, e le cellule rispondono allo stimolo proliferativo cominciando a moltiplicarsi esageratamente. È un processo che dura anni: cinque, dieci, vent'anni, anche di più. Che cosa succede in tutto questo tempo?
È la domanda alla quale la ricerca sul cancro sta cercando di dare una risposta. Le fasi principali sono sei. Uno, attivazione dell'oncogène. Due, mancata attivazione del gene deputato alla soppressione dell'oncogène. Tre, inizio della moltiplicazione delle cellule tumorali. Quattro, crescita di nuovi vasi sanguigni deputati a nutrire il tumore. Cinque, scomparsa del normale meccanismo di equilibrio che programma la morte cellulare: sostanzialmente, le cellule dei tumori si eternizzano, e sono decenni che questo è stato scoperto in laboratorio, sulle colture cellulari. Infine, la fase numero sei, l'ultima: nella progressione le cellule tumorali hanno acquisito i loro caratteri biologici tipici, tra i quali l'andamento invasivo, la capacità di sviluppare colonie a distanza. Perciò ecco la metastasi.
È la sequenza di un brutto film, di un film che mette i brividi. Ma non è un copione obbligato, non è ineluttabile. Proprio la "lunga notte del tumore", cioè il lungo periodo di latenza, ci permette di giocare sul tempo per battere la malattia. Stiamo andando verso la possibilità di diagnosi sempre più precoci, e probabilmente entro dieci-vent'anni potremo passare sotto un detector in grado di rilevare nel nostro organismo tumori di una sola cellula, che sarà agevole distruggere. Intanto (ed è qui che entrano in campo farmaci più mirati e più efficaci) stiamo cercando d'individuare in modo più accurato la linea di demarcazione tra la fase reversibile di un tumore e il punto di non-ritorno nella traiettoria che porta la cellula sana o l'aggregato di cellule a trasformarsi in una massa di cellule maligne in progressivo accrescimento. Ma giocare sul tempo ha anche un'altra valenza, importantissima. Significa, in buona sostanza, che la prevenzione (sia come stili di vita, sia come semplici e facili controlli di routine per fare diagnosi precoce) va fatta subito, fin da giovani. Bisogna approfittare della "lunga notte del tumore" per batterlo sul tempo, e far sì che non si manifesti. Sappiamo tutti che i giovani si sentono immortali, non vogliono sentir parlare di malattia e di morte, e lo definiscono "gufare", con un parola di gergo giovanile molto espressiva.

lunedì 5 maggio 2008

Obesita': scoperto segreto per dimagrire senza tagli al menu'

Perdere peso senza rinunciare alle golosità del menù? Presto il sogno di molte persone alle prese con i chili di troppo potrebbe diventare realtà, dal momento che un gruppo di ricercatori australiani sostiene di aver scoperto il segreto per dimagrire senza toccare le calorie. Un team di scienziati di Melbourne ha visto, infatti, che basta manipolare le cellule grasse nei topolini, per accelerarne il metabolismo. In particolare, dopo aver rimosso un determinato enzima, gli studiosi hanno scoperto che gli animaletti 'modificati' potevano mandar giù le stesse porzioni pantagrueliche di quelli normali, bruciando però molte più calorie e accumulando meno peso. Una ricerca pubblicata su 'Pnas' che, si legge sulla Bbc online, potrebbe dare il via a farmaci brucia-grassi e aiutare a combattere il diabete. Lo studio ha scoperto che i topi in cui l'Ace(enzima di conversione dell'angiotensina) era stato rimosso, in media erano il 20% più leggeri dei compagni normali, e avevano fino al 60% in meno di grasso corporeo. A causa del loro rapido metabolismo, questi animaletti sono risultati anche meno a rischio di diabete, perché in grado di metabolizzare gli zuccheri più rapidamente. La buona notizia è che esistono già farmaci che bloccano l'azione dell'Ace nell'uomo: attualmente vengono usati per combattere l'ipertensione. Dunque quest'ultima ricerca potrebbe favorire la messa a punto di pillole speciali per perdere peso senza troppe rinunce. La questione, a questo punto, è capire se queste nuove pillole avranno sull'uomo lo stesso effetto scoperto nei topi.

domenica 27 aprile 2008

Sognare fa bene ai ricordi

Dormire fa bene alla salute e sognare aiuta a ricordare. Che una notte di sonno sia un toccasana è cosa nota ma che quattro notti 'senza sogni' danneggino la memoria è una scoperta che si deve a un gruppo di ricercatori americani del V.A. Greater Los Angeles Halthcare System. Secondo lo studio del team del professor Dennis McGinty, pubblicato sulla rivista scientifica Sleep, quattro giorni di privazione del sonno Rem, quello profondo in cui si sogna, causano una riduzione della proliferazione delle cellule celebrali che contribuiscono all'archiviazione della memoria a lungo termine. In pratica, secondo gli studiosi, per preservare la nostra capacità di ricordare è necessario non disturbare il sonno del primo mattino. Il riposo notturno infatti non è uguale per tutta la sua durata. Durante la prima parte della notte infatti dormiamo un sonno profondo (fase non Rem), a metà nottata attraversiamo varie stadi di sonno REM (4 o 5 della durata di 5-30 minuti) e, infine, verso il mattino, ci troviamo in una fase 2 di sonno non REM, più vicino alla veglia.

L'esperimento. I ricercatori hanno condotto lo studio su due gruppi di topi. Grazie ad un sistema di rilevazione automatica del sonno profondo, la ruota su cui riposavano le cavie del primo gruppo si azionava svegliandole quando attraversavano la fase Rem. Anche il secondo gruppo è stato sottoposto allo stesso trattamento, ma venivano svegliati indipendentemente dal momento del ciclo sonno-veglia. Secondo i risultati, il sonno Rem è stato ridotto dell'85% nei ratti 'sotto esame' e del 43% in quelli 'di controllo'. E la proliferazione cellulare si è ridotta del 63% nei primi, rispetto ai secondi. "Diversi studi hanno già dimostrato quanto il sonno contribuisca alla plasticità cerebrale e alla neurogenesi adulta, ovvero al funzionamento e al rigeneramento dei neuroni nel sistema nervoso centrale – spiega McGinty –. Ma questa ricerca si chiedeva in quale modo i due diversi tipi di sonno, quello con e senza sogni, influissero su cervello e memoria. I risultati mostrano che il sonno Rem ha un ruolo chiave nel favorire la plasticità cerebrale”. Anche se va detto, chiariscono i ricercatori, che nessun dato escluda che l'altro tipo di sonno, quello non Rem, abbia un'importanza simile.

I consigli per dormire bene. Dall'American Academy of Sleep arrivano i suggerimenti per un buon riposo notturno:1. Dormire almeno sette-otto ore a notte 2. Avere abitudini regolari prima di andare a letto3. Cercare di rilassarsi prima di dormire4. Evitare di fare le ore piccole5. Niente cibi o bibite a base di caffeina, o farmaci stimolanti, prima di coricarsi6. Sgomberare la mente dalle preoccupazioni a letto 7. Andare a letto né affamati, né con lo stomaco troppo pieno 8. Evitare di fare attività fisica intensa nelle sei ore che precedono il sonno9. La camera da letto deve essere silenziosa, buia e leggermente fresca10. La sveglia deve suonare sempre alla stessa ora

sabato 26 aprile 2008

Malattie rare...sono rari ma tanti.

Delle malattie rare non si conosce il numero esatto, ma si stima che siano circa 6-7 mila. Ognuna di queste colpisce pochi pazienti (meno di cinque casi su 10.000 abitanti) ma sommando i piccoli numeri si arriva a una cifra che parla da sola. Trenta milioni di persone in Europa e un milione in Italia sono affette da queste patologie, spesso poco conosciute ma che generano sindromi croniche, disabilità e morte prematura sia nei bambini sia negli adulti. Diagnosticarle è difficile così come curarle. Sono pochi i finanziamenti disponibili per la ricerca e per lo sviluppo dei farmaci che, spesso, rimangono "orfani", ovvero senza "sponsor". Per questo l’organizzazione europea e quella italiana per le malattie rare, Eurodis e Uniamo, hanno organizzato la Prima giornata europea delle malattie rare, in un giorno raro: il 29 febbraio. In molte città italiane ed europee ci sono state manifestazioni.

Più formazione per i pediatri. La maggioranza delle malattie rare fino ad oggi conosciute si manifestano in età pediatrica. Proprio per questo “i pediatri devono acquisire – spiega Pierpaolo Mastroiacovo, presidente della Simgeped (la Società italiana malattie genetiche pediatriche e disabilità congenite) in un convegno a Roma – un’adeguata formazione in materia e il bambino deve essere seguito nella malattia da specialisti”. Tutto ciò è realizzabile soltanto con iniziative concrete come la collaborazione con le famiglie creando una banca dati di 'storie esemplari'. "In questo modo – continua Mastroiacovo – si potranno migliorare la diagnosi precoce, l'acquisizione dei dati sulla qualità di vita dei malati, le tecniche di valutazione dell'efficacia delle cure e le eventuali emergenze".

Ampliare l’elenco delle malattie rare. Il 20 marzo la conferenza Stato-Regioni ha affrontato l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (Lea) e anche la questione dell’ampliamento dell’elenco delle malattie rare. Questa è la direzione che bisogna seguire secondo il ministro della salute Livia Turco. Soltanto aggiornando l’elenco infatti, secondo il ministro, sarà possibile riconoscere e diagnosticare le malattie rare. E, una volta individuata la malattia, chi ne è affetto potrà accedere alle prestazioni sanitarie gratuite.

Nasce il Centro nazionale delle malattie rare. Proprio in occasione della giornata dedicata a queste patologie il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Enrico Garaci, ha annunciato la nascita del Cnmr. 35 ricercatori lavoreranno per il controllo di qualità dei test genetici, per aggiornare il registro nazionale delle malattie rare e il registro dei farmaci ‘orfani’, e infine valuteranno i differenti bisogni dei pazienti. Sarà inoltre attivato dal 10 marzo (dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13) il numero verde 800 896949, gratuito e a disposizione dei pazienti, dei medici e degli operatori sanitari per avere informazioni più precise sulle patologie e sui centri di cura.

Un sito dedicato. Medici e specialisti potranno attingere a tutte le informazioni fino ad oggi disponibili sulle malattie rare. Basterà accedere al sito, aggiornato a scadenza settimanale, al quale sta lavorando Farmindustria e che sarà presto disponibile in rete.

venerdì 25 aprile 2008

Macché cancerogeno, il peperoncino fa benissimo

E’ stato condannato senza processo, senza prove, senza indizi. Ma il peperoncino è assolutamente innocente. Anzi è una pianta altamente benemerita. Mangiatene pure senza paura.Lo afferma l’Associazione Nazionale Medici Fitoterapeuti (Anmfit) in relazione alle notizie di stampa circa una presunta pericolosità dell’alimento, additato in un congresso di Urologia in corso a Roma come fattore di rischio di malattie prostatiche, tra cui il tumore. “Niente di più falso”, commenta il presidente dell’Anmfit, Fabio Firenzuoli, direttore a Empoli del Centro di Medicina Naturale e del Centro di riferimento per la Fitoterapia della Regione Toscana.“Così come servono prove scientifiche per dire se una sostanza fa bene alla salute o se addirittura serve per curare certe malattie”, aggiunge, “servono prove anche per affermare che una sostanza è tossica o pericolosa o cancerogena. Servono prove anche se la sostanza è naturale e, a maggior ragione, se si tratta di un alimento. Altrimenti si rischia di provocare inutili allarmismi, peraltro privi di qualunque fondamento”. L’Anmfit ricorda dunque che dal punto di vista scientifico, e non popolare, la realtà dei fatti, è la seguente:1) il peperoncino non è cancerogeno. Le popolazioni che ne fanno più uso (Messico) non presentano infatti una maggiore incidenza di cancro prostatico;2) non esiste alcun lavoro scientifico, né sperimentale, né epidemiologico, che dimostri la pericolosità della piatta in questione. Tutti i lavori scientifici, pubblicati su riviste internazionali, dimostrano l'esatto contrario. E cioè:1) il peperoncino è tra tutte le piante quella con più spiccata attività antiossidante, maggiore anche dei broccoli e delle carote. Inoltre è dotato di elevata attività antiproliferativa su cellule tumorali;2) induce la cosiddetta Apoptosi, cioè favorisce la morte programmata delle cellule del tumore prostatico;3) la Capsaicina, una delle sostanze contenute nel peperoncino, agisce sul citocromo P450, inibendo così la formazione nell'organismo di pro-cancerogeni naturali. Non solo: la Capsaicinala capsaicina inibisce la crescita di cellule tumorali prostatiche4) i Carotenoidi, ovvero le sostanze responsabili del colore giallo e rosso del peperoncino, hanno dimostrato una potente attività antitumorale in vitro;Per concludere, il peperoncino come alimento favorisce la digestione, offre una buona quantità di sostanze protettive e antiossidanti, e presenta anche interessanti proprietà farmacologiche sfruttabili in medicina: maggiormente studiate sono le attività contro il dolore e la cefalee in particolare. Importanti a questo proposito le ricerche del professor Pierangelo Geppetti, (Istituto di Farmacologia, Università di Firenze), uno dei massimi ricercatori mondiali proprio sui recettori nervosi della Capsaicina.“Chi gradisce il peperoncino”, spiega Firenzuoli, “può quindi mangiarlo tranquillamente senza rischi. Anzi, proprio i maschi devono sapere che la pianta contiene sostanze addirittura utili nella prevenzione del cancro prostatico”.

Benvenuti !

Oggi 25 aprile 2008 la redazione de "il diritto" crea una nuova rubrica dedicata alla salute..

Grazie a tutti i lettori che vorranno visitare ed interagire con il nostro Blog